[L’Antegnati 1565 della Basilica Palatina di S. Barbara – Mantova]
Rendetemi il mio ben, Tartarei Numi
(Orfeo, atto III)
17 settembre 2006: io sto in fondo, terzultima fila. Ho messo una sahariana
verdolina, un paio di jeans e i soliti sandali di cuoio. Avrei il posto
riservato davanti tra le Autorità in giacca e cravatta, ma neanche per idea.
Davanti a me una signora distinta con i capelli azzurri crede di essere a
Bayreuth e si gira ogni tanto a guardarmi severa perché chiacchiero con Marco
Vincenzi: e che cavolo, il concerto non è ancora cominciato! C’è gente in piedi,
faccio fatica a tenere il posto a Marco Fratti che sta armeggiando con il dat.
Siamo quasi al buio, l’architetto che ha diretto i lavori ci stupirà con
un’aurora hollywoodiana governata dal computer, roba da rimanere a bocca aperta,
e poi sarà la volta di un occhio di bue puntato sull’organo per l’apertura delle
portelle. Siamo tutti un po’ nervosi, è la prima volta che l’organo suona con la
chiesa piena, potrebbe risultare lontano, un po’ fiacco, deludente… Arriva
Sgarbi con una bella signora – la sera prima si è aperta la grande mostra
dedicata al Mantegna – punta diritto alla prima fila di fianco al vescovo, ma si
capisce che è molto impegnato, continua a mandare sms, di lì a poco se ne andrà.
I discorsi sono brevi per fortuna, le portelle ci mettono un po’ ad aprirsi ma
va bene, è come a teatro. Un fotografo disturba sparando a mitraglia, sai quanto
sia necessario immortalare la vera apertura nel vero momento dell’inaugurazione
dell’organo…
Qualche secondo di silenzio e poi finalmente la musica: toccata “La Gonzaga” di
Germano Pallavicino, Edoardo Bellotti non poteva scegliere un pezzo più
appropriato.
Ed è magia pura.
Giorgio Carli corre da noi alla fine del concerto, non gli viene la voce…
Non senza fatiga si giungeva al fine di un’avventura iniziata nel 1993 con i
primi emozionanti sopralluoghi. Stavamo letteralmente riscoprendo uno strumento
che Oscar Mischiati aveva dato per disperso. Ancora nel suo contributo a “Gli
Antegnati”, la ricca raccolta di studi e documenti intorno alla celebre dinastia
di organari del rinascimento apparsa nel ’95, esprimeva forti dubbi sulla sua
originalità. Di fatto bisognava guardare bene, perché l’organo di Santa Barbara
si presentava orrendamente sfigurato da decine di cattivi interventi. La
facciata era a dir poco triste, dal do 1 di 8’ in un fornice di 12’ con qualche
straccio in alto per tappare i buchi. La consolle a finestra era la più tipica
tardo - ottocentesca, di fattura modesta, e la disposizione dei registri
denunciava un goffo tentativo di riforma, con bordone violino e celeste ad
accompagnare le file di ripieno. Il piccolo mantice azionato manualmente
immetteva il vento in un groviglio di tubi spaventoso e le canne erano
ovviamente nel più grave disordine. In quella jungla, sotto un palmo di
sporcizia se ne intravedevano alcune sicuramente antiche ma a strumento montato
era impossibile stabilirne il numero. Il crivello era in cuoio, un buon segno!
Ma il gran somiere a vento in particolare presentava molte anomalie: era strana
l’aggiunta sul lato sinistro; non si erano mai viste ante di chiusura della
secreta fissate così con 4 squadrette metalliche; erano strane le punte guida
dei ventilabri in testa (Bianchetti e Facchetti?) e stranissimo il pavimento
della secreta, eccezionalmente in legno di noce, lungo da un capo all’altro,
aggiunta compresa. E poi perché 57 ventilabri quando i tasti erano 50? La
risposta venne dalla catenacciatura, strana anch’essa perché sulla tavola
d’abete qualcuno aveva incollato ortogonalmente dei listelli di pioppo (un
compensato d’epoca! un altro particolare di questo strumento che non trova
riscontri): proprio sul pioppo, in basso, a china, da destra a sinistra si
leggeva Ut, R, mi, +, 2, 3 e avanti fino a 9, poi 9°, 10 etc. fino a 14 seguito
da un 14° e su su fino alla fine con doppia numerazione per tutti i tasti
relativi a mi bemolle e sol diesis. Avevamo dunque la catenacciatura e il
somiere di un organo con i tasti spezzati. In una lettera del 1565 si fa
riferimento a questo particolare, pertanto c’erano buone probabilità che il
nostro fosse proprio l’Antegnati. Trovammo presto una conferma, perché la mano
che aveva scritto sulla catenacciatura era la stessa che aveva segnato le canne
sicuramente originali.
La scoperta era così importante da meritare un trattamento di favore da parte
della Soprintendenza di Brescia, all’epoca competente per gli organi di Mantova:
ottenemmo il permesso di smontare tutte le canne per fare uno studio
preliminare. Arrivò l’amico e collega Flavio Dassenno ad affiancare l’equipe
costituita da Damiano Rossi, ispettore onorario, da Licia Mari, incaricata della
ricerca d’archivio e dal sottoscritto. Seguirono giorni di lavoro febbrile al
freddo umido dei giorni della merla per ricomporre quel gigantesco puzzle e
formulare le prime ipotesi. Data l’inconsistenza dei materiali più recenti – due
registri violeggianti di zinco – fu possibile ignorare le stratificazioni e
stendere un progetto di ripristino dell’Antegnati. I lavori affidati a Giorgio
Carli iniziarono sulla scia dell’entusiasmo generale. Era l’occasione propizia
per condurre un restauro esemplare e l’organaro non lesinava con analisi
chimiche e fisiche e con la dendrocronologia, raccogliendo una mole
impressionante di dati. Il laboratorio rimase aperto a tutti gli studiosi e a
tutti gli organari interessati a visionare il materiale, ci furono ore e ore di
discussione appassionata per dare una risposta ad ogni minimo quesito. Intanto
il restauro dell’organo Antegnati aveva trascinato altri importanti lavori:
prima il tetto della Basilica, poi la facciata e il campanile. Era giocoforza
rallentare un po’, ma in ogni caso si arrivò di slancio ad allestire una mostra
nel 1997, forse la prima mostra del restauro di un organo, alle fruttiere di
Palazzo Tè. Il successo fu maggiore di ogni aspettativa: la Gazzetta di Mantova
pubblicava intere pagine sulla chiesa di S. Barbara e sul suo organo prezioso;
tutta la città attendeva con ansia di risentirne la voce e il gruppo di studio
aveva ormai un tavolo riservato all’osteria delle Quattro Tette.
Purtroppo il restauro della chiesa andò per le lunghe, al punto che l’organo fu
riconsegnato smontato nel 2001. Arrivò la depressione, e non bastarono a
rincuorare gli animi due concerti vocali e strumentali organizzati nel cantiere
per risvegliare l’attenzione degli sponsor, nel 1999 e nel 2003, la chiesa
gremita, tutta la gente in piedi tra i tubi Innocenti. I soldi scarseggiavano ma
si continuava a pulire l’intonaco con il bisturi. Poi bisognava sollevare il
pavimento per mettere il riscaldamento, poi i servizi igienici, poi l’impianto
elettrico, poi l’allarme, poi chissà…
Solo ai primi di gennaio del 2006 la Curia mantovana chiese all’organaro di
rimontare lo strumento. I lavori in chiesa non erano ultimati - ancora oggi
restano da restaurare le quattro cappelle piccole e la sacrestia, un ambiente
fantastico che sarebbe perfetto per delle conferenze, delle lezioni o delle
prove musicali - e c’era il rischio di arrivare all’inaugurazione con l’acqua
alla gola. Un sentimento misto di frustrazione e rabbia aveva portato Carli alla
determinazione di mollare tutto lasciando a qualche collega l’onore e l’onere di
ultimare il restauro. E invece gli bastò entrare in chiesa, godere ancora una
volta di quegli spazi e della luce che entrava dalle lanterne sul tetto per
riprendere il lavoro, con l’acqua alla gola ovviamente, come previsto, questa
volta con 30 gradi di temperatura e 90 % di umidità, con il continuo viavai di
muratori elettricisti idraulici e pulitori, poi addirittura con matrimoni e
visite guidate fino a pochi giorni prima del concerto inaugurale.
E’ curioso il destino che lega il restauro dell’organo alle primissime fasi
della sua costruzione: anche allora la consegna avvenne in condizioni quanto
meno stressanti.
Questo strumento nasceva eccezionale per un ambiente musicale straordinario,
perché al tempo di Guglielmo Gonzaga la città di Mantova non temeva il confronto
con nessun’altra capitale. La basilica palatina era stata concepita dal suo
architetto Bertani come un teatro, o meglio come un auditorium affinché, come
recitava l’elogio funebre del devotissimo duca, “giorno e notte risuonasse d’Hinni
e di Salmi”.
Girolamo Cavazzoni era stato incaricato di tenere i contatti con Graziadio
Antegnati per la costruzione dell’organo, che in principio doveva essere del
tipo più comune per l’epoca. I due dovettero discutere a lungo – abbiamo le
prove – perché da un lato bisognava far cosa gradita al Duca, dall’altro si
doveva sfruttare l’occasione per un adeguato ritorno d’immagine.
L’organista aveva in mente qualcosa di diverso dal solito strumento buono per l’alternatim,
lo voleva moderno con il “Mi Re Ut” e con la bellezza di 7 tasti spezzati per
disporre delle note la bemolle e re diesis su tutta l’estensione della tastiera.
L’organaro scuoteva la testa…
I tasti spezzati erano utili alla trasposizione dei brani vocali senza perdere
la qualità dell’accordatura. Questa è un’indicazione preziosissima per la prassi
esecutiva: era dunque normale l’accompagnamento all’organo della polifonia.
L’organista trasponeva per comodità dei cantori brani composti da Autori diversi
provenienti da diverse città dove erano in uso diversi diapason, e il fondo
musicale di S. Barbara è ricco di composizioni provenienti da tutto il mondo.
Graziadio confidava nella generosità del Principe: per accelerare i tempi, deve
aver dirottato a Mantova uno strumento con quattro registri in più già imbastito
per un’altra chiesa.
I sette canali relativi ai tasti spezzati e al Mi Re Ut occupano uno spazio
corrispondente esattamente all’aggiunta fatta al somiere sul lato sinistro. Ora
se l’ipotesi dell’utilizzo di materiali già pronti è sostenibile, la modifica al
somiere deve essere stata fatta fin da subito perché i separatori disposti con
perfetta simmetria sono incastrati nelle cinture. Tutto sembrava calcolato al
meglio e invece la sistemazione sul davanti delle canne in più del Principale si
rivelò un rompicapo, perché lo spazio disponibile in S. Barbara era poco e
dettato da precise esigenze architettoniche. In più il nostro somiere o meglio
le maestre di facciata erano state concepite inizialmente per un prospetto a 5
campate. Se è corretta l’attribuzione delle portelle (Fermo Ghisoni, 1573), il
prospetto deve essere stato ridotto a 3 fin dagli inizi, costringendo Graziadio
ad ammassare 7 canne per parte dietro le paraste, non prima di averne ridotto il
diametro aprendole tutte, spianandole, rimettendole in tondo e saldandole
nuovamente: un lavoro assurdo, lungo, difficile e di nessuna soddisfazione. A
riprova del tormento restano decine di tracciature a secco sulle maestre alla
ricerca disperata della migliore disposizione. (foto tracciature)
La consegna dovette avvenire in due tempi, ma alla fine tutto andò per il
meglio. Scriveva al Duca il Cavazzoni (3 luglio 1565): “l’organo è riuscito
tanto buono ch’io non saprei dimandar meglio, et par ch’a questa chiesa sempre
vi sia il giubileo per la frequentazione del popolo che ci viene per questo”.
Durò poco perché dopo soli tre anni la chiesa fu ingrandita della cosiddetta
“gionta” e l’organo pieno di polvere subì il primo di una serie pressoché
infinita di interventi di manutenzione. Questa fu affidata agli Antegnati almeno
fino al 1588. Poi operarono Bernardino Virchi tra il 1599 e il 1610, e Tommaso
Meiarini negli anni ’20. Le continue cure di cui abbiamo notizia attraverso i
documenti di archivio dimostrano quanto fosse considerato lo strumento presso la
corte mantovana. Ma arrivarono prima la peste, poi gli Austriaci, poi i
Francesi, poi ancora gli Austriaci, e l’organo continuò ad essere riparato in
qualche modo senza tuttavia perdere la propria fisionomia. In epoca imprecisata
la tastiera fu portata al do6 per poter eseguire con il Principale tutto il
repertorio a stampa dal 1600 in avanti; in un’altra occasione furono eliminati i
tasti spezzati, che con l’arrivo dei temperamenti moderni non avevano più
ragione di essere. Purtroppo manca la documentazione di questi eventi così
importanti per la storia dello strumento, che col passare degli anni andava
sempre più deteriorandosi. Nel 1804 si decise di ridurlo da 16 a 8 piedi, per
pagare con la vendita delle canne più grandi inderogabili lavori di
manutenzione. Nell’occasione, un certo Antonini introdusse i cornetti
sacrificando due file di ripieno, ma l’organo rabberciato continuava ad andare
male. Si tirò avanti per un altro secolo in qualche maniera per arrivare nel
1913 al colpo di grazia, la “riforma” di Pietro Gazza, un guastamestieri di
Parma che doveva avere buoni appoggi nell’ambiente mantovano perché poté mettere
mano agli organi più importanti della città. Fu lui ad inserire i registri
violeggianti al posto dei cornetti e a trasformare quel che restava dei flauti
cinquecenteschi in un bordone “per far molti piacevoli effetti”.
Non ci fu modo di apprezzare questa meraviglia perché la chiesa veniva poco a
poco abbandonata. L’organo fu rimesso in condizione di suonare nel 1980 per la
registrazione di un disco di musiche vocali e strumentali; suonò ancora per
qualche anno il 4 dicembre alla messa degli artiglieri poi più niente.
Nulla impresa per uom si tenta invano,
Nè contr’a lui più sa natura armarse.
(così cantano gli Spiriti al grido di Orfeo; i versi dello Striggio stanno qui
come un bel colpo di reni per risalire in fretta dopo aver toccato il fondo)
Due sostanzialmente le armi della Natura: il clima di una città cinta dall’acqua
e una generazione dopo l’altra di topi voracissimi che prima devastavano i
mantici e poi si annidavano tra le canne, ebbri dei sali di piombo; molto si
deve al Tempo, suo temibile alleato, ma soprattutto le vicende dell’organo
Antegnati sono state determinate dall’incuria dell’uomo. Questa da un lato ha
lasciato deperire in lunga agonia un’opera d’arte, dall’altro ha permesso che
giungesse fino a noi, in pessime condizioni ma ancora leggibile. E qui entra in
ballo la Fortuna, perché oltre alle durissime ferite riscontrate – l’amputazione
dell’ottava grave e la “riforma” rivelatasi una becera manomissione – abbiamo
notizia di almeno due progetti di rifacimento totale, uno di Luigi Acerbis e
l’altro dei mantovani Montesanti i quali, dimostrando buona professionalità,
rifiutarono di mettere mano al vecchio organo per l’ennesima riparazione. La
realizzazione di questi progetti avrebbe portato alla perdita dello strumento.
Invece l’impresa di riportarlo in vita si è potuta tentare, e nel 2006 il mondo
della cultura e dell’arte si è riappropriato di un patrimonio d’inestimabile
valore, in uno dei siti più importanti in assoluto per la storia della musica.
Da un inventario del 1611 apprendiamo che la Cappella musicale faceva risuonare
in S. Barbara opere di Lasso, Jachet de Mantua, Palestrina che a Guglielmo
dedicò le famose Messe mantovane, poi di Wert e Gastoldi, i maestri di cappella,
e ancora Ingegneri, Da Victoria, Lappi per non dire di Monteverdi attivo presso
la corte mantovana fino alla morte di Vincenzo Gonzaga (1612). L’organo giocava
un ruolo di primissimo piano: in occasione del Convegno di Studi tenutosi a
Brescia nel 2005 a cura dell’A.M.I.S., Licia Mari ha riferito di una fonte
pressoché inedita conservata presso l’Archivio Diocesano di Mantova, un Diario
manoscritto che documenta la prassi di accompagnare la polifonia, eseguita
probabilmente da pochi cantori (“si canta sull’organo”); più avanti si dice
dell’intervento di altri strumenti (“si fa concerto nell’organo”), e la chiesa
completata nel 1572 è ricca di tre cantorie oltre al coro per il Gregoriano ed
altre postazioni strategiche per rispondere in eco.
Quello stesso organo suonato da Girolamo Cavazzoni, da Francesco Rovigo e per
alcuni mesi nel 1615 da Girolamo Frescobaldi è stato ritrovato. Possiede qualità
oggettive che vanno al di là del gusto personale e uno straordinario valore
aggiunto, quello di essere in gran parte originale. Restano infatti dell’Antegnati
39 canne in stagno fino del Principale, 181 canne di ripieno e 40 di flauto, un
numero importante per comprenderne a fondo la logica costruttiva al di là delle
molte manomissioni subite in quattrocento e passa anni di storia. Sono state
tutte accorciate e variamente modificate a livello della bocca, con la
ribaditura dei denti e l’innalzamento del labbro superiore. Non tutte allo
stesso modo però: un’analisi approfondita dei molti dati incrociati tra loro ha
permesso al restauratore di interpretare oggettivamente il materiale, per
riportare le canne ad una condizione verosimilmente vicina all’originale.
Già in fase di riordino si sono potute apprezzare importanti caratteristiche,
come un sensibile restringersi dei diametri da una fila all’altra del ripieno.
La lunghezza dei corpi è stata ripristinata sulla scorta della canna più “lunga”
di tutto l’organo, quella cioè che in rapporto alla numerazione originale
emetteva il suono più grave: il La bemolle scavezzo n° 38 del principale, una
canna spostata dalla sua sede più di 200 anni fa al momento della
normalizzazione della tastiera, ritrovata allo smontaggio sul canale del La. Da
questa canna si è potuto ricavare un diapason a 466 HZ a 20°, un valore
credibile per uno strumento di area lombarda della fine del ‘500 e indubbiamente
utile per concertare con tromboni e cornetti.
Corretti gli allineamenti, eliminati gli avvallamenti poco credibili delle
anime, attutiti i denti recenziori, tutte le canne dalla bocca rialzata erano
riconoscibili ad orecchio: nelle ore che ho passato alla tastiera durante la
fase delicata del recupero dell’intonazione controllando l’attacco, il colore e
la forza, un passaggio dopo l’altro arrivavo a individuarle tutte. Queste
venivano pescate dall’organaro e rimesse nella giusta proporzione.
Si è deciso di conservare un discreto nucleo di canne seicentesche non numerate
di squisita fattura attribuibili a Virchi e a Meiarini. Tutte le altre più
recenti sono state scartate e rimpiazzate da altrettante nuove, ricostruite
secondo il modello antegnatiano.
Si è già detto del somiere a vento e della catenacciatura principale. E’
certamente originale anche quella dei registri, forgiata dallo stesso fabbro che
ha messo in opera quella della chiesa cremonese di S. Maria al Campo. Tutti
questi elementi sono stati restaurati e rimessi in funzione.
Il crivello in cuoio è stato ricostruito in copia per garantire un migliore
sostegno alle canne e per evitare di intervenire ancora sull’originale, un
reperto di straordinario valore scientifico che verrà conservato in un locale
attiguo alla stanza dei mantici adibito a museo dell’organo. Sarà così possibile
“leggere” in qualsiasi momento la storia dello strumento: l’eliminazione delle
note enarmoniche e del Mi Re Ut, l’aggiunta prima dei cornetti e poi delle viole
e una modifica dello scomparto. Si è preferito ricostruire anche la tastiera,
come ad Almenno S. Salvatore e la registriera come a S. Maria al Campo. La
pedaliera rinvenuta allo smontaggio, di difficile attribuzione ma sicuramente
molto antica, è stata conservata.
Un cenno particolare meritano i quattro nuovi mantici a cuneo. Sono stati messi
a terra a ridosso dello schienale che chiude la cella organaria su uno dei
vecchi portavento. Ciascuno di essi è dotato di una propria stanga per
l’azionamento manuale, ma tutto l’impianto può essere alimentato da un sistema
elettropneumatico ideato da Giorgio Carli che reagisce alla maggiore o minore
richiesta di vento aumentando o diminuendo la velocità, esattamente come farebbe
un uomo.
Scheda tecnica:
L’organo costruito da Graziadio Antegnati nel 1565 è collocato in cantoria, un
vano della muratura, in cornu epistulae. La cella organaria è coperta da una
volta a botte decorata a cassettoni; il fondo è stato ricostruito in legno di
pioppo.
Il prospetto, verosimilmente rimaneggiato, è costituito da un apparato ligneo
tripartito sormontato da un arco a tutto sesto. Restano elementi della
decorazione cinquecentesca riccamente scolpiti e dorati. Le portelle dipinte
sono attribuite a Fermo Ghisoni; chiuse raffigurano San Pietro e Santa Barbara e
aperte l’Annunciazione. Nel sottocassa un portellone scorre da sinistra a destra
a chiusura della consolle.
La facciata è in stagno, di 15 canne divise in 3 campate di 5 ciascuna disposte
a cuspide; appartengono al Principale a partire dal Fa1 di 12’. Labbri superiori
a mitria, bocche allineate.
Tastiera ricostruita su modello originale (Almenno). Estensione Do1 a Fa5 con
prima ottava corta; 7 tasti sono spezzati per le note Mib/Re# 2, 3, 4, 5 e Sol#/Lab
2, 3 e 4.
Pedaliera antica, a leggio, di 18 pedali estesa da Do1 a La2; è costantemente
unita al manuale.
I registri sono mossi da 12 manette con incastro, in noce, ricostruite su
modello originale (Cremona, S. Maria al Campo), disposte in una colonna a destra
della consolle.
Ordine delle manette:
Principale | 16’ |
Fiffaro dal Fa 3 | 16’ |
Ottava | 8’ |
Decimaquinta | 4’ |
Decimanona | 2.2/3 |
Vigesimaseconda | 2’ |
Vigesimasesta | 1.1/3 |
Vigesimanona | 1’ |
Trigesimaterza | 2/3 |
Trigesimasesta | 1/2 |
Flauto in XIX | 2.2/3 |
Flauto in VIII | 8’ |
Umberto Forni
Siamo a Roma, nel settembre 1581: Antonio Rizzi è un cantore siciliano al servizio del duca Guglielmo Gonzaga, che viaggia per l’Italia con l’incarico di procurare al suo signore buoni musicisti. E non solo: a volte – come capita a molti servitori – gli viene chiesto di procurare un tessuto prezioso, o qualche altro oggetto di valore. È un buon agente, vivace: insieme al fidato Aurelio Zibramonti sa intessere trattative importanti. Come quella appena abbandonata a Bologna, per una cantante e strumentista, che Guglielmo vorrebbe come dama di compagnia per la giovane nuora Margherita Farnese, da poco giunta a Mantova. Si tratta di Laura Bovio, che tutti lodano per le sue qualità e vanno ad ascoltare ammirati nelle celebrazioni presso il convento di San Lorenzo.
Ora, però, Antonio deve lavorare bene: proprio tramite Aurelio Zibramonti ha ricevuto dal duca «cinquanta scudi d’oro del peso di Roma per andar alla suddetta città in servizio di Sua Altezza, de’ quali gli havrà da render ragione». Il cantore cerca virtuosi di pregio e può avere un aiuto dal nobile Scipione Gonzaga, attorno al quale si radunano tutti i migliori musicisti, come Luca Marenzio, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Giovanni Maria Nanino, Ruggero Giovannelli. La relazione che manda a Mantova è dettagliata e offre diverse possibilità: ha ritrovato un castrato che è già stato a corte e può di nuovo tornare; Palestrina gli ha consigliato un contralto («persona molto litterata», già impiegata in San Pietro) che però partirà solo con adeguato compenso, così come l’arpista Giovanni Battista che vuole condurre con sé anche i genitori.
Ma il primo che ha riposto alle richieste del duca Gonzaga e che Antonio pone in cima alla sua lista è un grande organista fiammingo, giunto a Roma a studiare con Filippo Da Monte, dopo essere stato fanciullo cantore nella cappella imperiale di Vienna: Giovanni de Macque. Ha bisogno di alcuni giorni per sistemare le sue faccende (è organista in San Luigi dei Francesi), ma «s’è contentato di venir a servire Sua Altezza» e se ne verrà con lo stesso Rizzi «se accosì piace» a Guglielmo.
È arrivato a Mantova davvero de Macque?
Ancora non lo sappiamo, ma come non pensarlo alla tastiera dell’Antegnati in Santa Barbara, oppure intento ad ascoltare i concerti in corte, o le celebrazioni in chiesa? Possiamo immaginare che anche attraverso il viaggio a Mantova le sue costruzioni musicali raffinate, le sue capacità di creare forme insolite e mobilissime, di sperimentare nei timbri e nei fraseggi, abbiano trovato idee e suggestioni, prime fra tutte sui tasti dell’organo di Graziadio.
In fondo è solo un viaggio da un Gonzaga all’altro, da Scipione a Guglielmo, quest’ultimo così in confidenza con il grande Palestrina. E poi, per de Macque, un nuovo itinerario verso Sud, per altri incarichi importanti a Napoli, cominciando con un allievo di tutto rispetto: Carlo Gesualdo principe di Venosa.
Così la musica percorre gli spazi, fa parlare gli uomini, apre occhi e menti.
E Antonio? Il cantore così servizievole e attento con il duca di Mantova?
È vivace e intraprendente, forse un po’ troppo. Lo ritroviamo a Genova nel 1584, in mezzo ad un piccolo guaio: assunto per educare i giovani figli di un nobile cittadino, è sorpreso a recarsi di notte per vie e palazzi a guadagnare denaro cantando. Il comportamento è troppo disdicevole, andrebbe punito, ma Antonio riesce a salvarsi: grazie alle sue amicizie – e probabilmente anche alle sue qualità – trova impiego come cantore a Palermo. Un altro viaggio al Sud, questa volta un ritorno a casa.
Licia Mari