Mantova, domenica 14 luglio 1585 Quando mi dissero che avrei sostituito Franceschino Rovigo all’organo di S. Barbara, ero un po’ spaventato. Sono Ruggero, suo allievo da tempo, e so quanto sia bravo e quanto io abbia ancora da imparare. Porto lo stesso nome, ma non sono Trofeo, l’altro grande organista in questa città. Sono solo Roversi, vengo da una famiglia semplice, senza troppe aspettative. Invece ora sono qui, a prepararmi per uno degli eventi più solenni in basilica: tra poco celebrerà la sua prima messa cantata il nuovo Abate, monsignor Barzellino Barzellini. Non solo, tra gli ospiti ci saranno quattro principi Giapponesi: sembra un sogno che io, il giovane Ruggero, stia per suonare alla presenza di nobili che arrivano dal lontano, lontanissimo, favoloso Oriente… Non devo distrarmi, l’Abate sta entrando: «attento al Cerimoniale» - mi ha sempre detto il maestro Rovigo - non dimenticare quando hai l’obbligo di suonare. Ho scelto per oggi la mia toccata preferita di Merulo, è un giorno lieto e luminoso, non importa se si sente il caldo umido dell’estate. Ho finito, mi volto per vedere meglio: che meraviglia i paramenti! Mons. Barzellino indossa un piviale splendente di rosso e oro, la mitra lo rende ancora più imponente, il crocifisso brilla sul petto con le sue pietre preziose e le madreperle. Dall’alto della mia cantoria getto l’occhio sulle tappezzarie che il campanaro ha scosso qualche girono fa per liberarle dalla polvere: mi ha spiegato il Reverendo Gastoldi che sono preziosi arazzi, su disegno del grande Raffaello, genio tanto amato dal papa. Proprio il nostro don Gian Giacomo, che insegna a cantare ai chierici, sta ora intonando l’epistola. Il maestro Wert ne parla molto bene, lo vede adatto a succedergli per la nostra cappella musicale. Vedo anche i principi Giapponesi, eleganti, molto attenti alla celebrazione, e così anch’io mi emoziono, quasi mi sfugge qualche tasto mentre seguo l’alternatim della messa e suono per l’elevazione. Ma siamo già alla benedizione, l’abate pronuncia anche l’indulgenza plenaria e io poi accompagno la sua uscita con l’ordinata processione. Per ora ho terminato, posso godermi un po’ di riposo e un quieto pranzo. Pompeo, l’amico cantore mi guarda sorridendo: si vede che gli piacciono i confetti che hanno voluto dare anche a noi alla fine del pasto. Sono un po’ gobbi, un po’ sghembi, sono quelli venuti meno bene, che non potevano essere usati per i dolci offerti ai principi dell’Oriente, ma sono buoni ugualmente. Se chiudo gli occhi, sembra per un attimo di vedere la sontuosa tavola, i raffinati abiti delle dame e il giovane principe Vincenzo che fa la corte alle più belle… Ora basta, bisogna tornare a studiare: mi aspettano i vespri che oggi saranno “pontificali” e il duca ha detto che devono essere celebrati «con musica molto perfetta». In realtà i salmi figurati di don Gastoldi sono proprio ben scritti: le voci sono condotte in modo elegante, si intrecciano ariose e posso sostenerle suonando con garbo, con i registri chiari del mio strumento. I principi Giapponesi sono di nuovo presenti e sembrano quasi commossi quando si avviano in processione insieme all’Abate – sempre autorevole, con amitto, stola, piviale e mitra – verso il fonte battesimale per impartire il sacramento ad un rabbino ebreo. Il momento è solenne, sono padrino e madrina i nostri duchi Guglielmo ed Eleonora. Ho capito a questo punto l’emozione dei nobili d’Oriente: il convertito viene chiamato Michel Mantio, in onore di uno dei principi, Mantio Ito. Resto incantato a guardare la scena, ma all’improvviso vedo il braccio alzato del maestro Wert: il Te Deum, devo suonare! La chiesa si riempie della parole di lode e la processione di avvia di nuovo verso il presbiterio. Sento i passi cadenzati, l’antifona viene proclamata e poi si eleva il Magnificat. Ora si recitano le ultime invocazioni, posso voltarmi e guardare: tra le mosse fiammelle dei ceri, brillano sull’altare i reliquiari d’oro e cristallo. Sua Altezza con un cenno fa portare un vassoio con la testa di santa Margherita e poi manda l’arciprete e l’arcidiacono con stola e piviale a prendere il Preziosissimo Sangue di Nostro Signore, conservato nella piccola cappella qui sotto, poco discosto dalla mia cantoria. Un brivido mi percorre la schiena: i principi Giapponesi, i duchi, l’Abate, il Capitolo, i chierici sono immobili, per un lunghissimo attimo che ferma il tempo su due mondi che si sono incontrati, e tutto sembra vicino, possibile, forse anche felice. Non distrarti, Ruggero, l’Abate ha alzato il capo: sta per uscire e tu devi essere pronto. Mi sento ispirato, questa volta improvviso: mi piace tanto un tema di canzone francese che ho sentito intonare nelle stanze del palazzo, già risuona nella mente, mentre metto la combinazione adatta di registri sul principale di 8 piedi. Voglio tanta luce, e il duca apprezzerà. Licia Mari Nell’allestimento realizzato lungo il passaggio tra palazzo ducale e la basilica si possono ammirare paramenti dell’Abate e del Capitolo, il reliquiario di santa Barbara, un codice corale con la miniatura di santa Margherita dipinta da Teodoro Ghisi. I principi Giapponesi hanno inviato al duca Guglielmo una lettera di ringraziamento nella loro lingua, conservata nell’Archivio di Stato cittadino.
Licia Mari
Poco fa, quando ho aperto gli occhi, non sono riuscito subito a capire dove mi trovavo: il sole illuminava le volute soffici dai colori ambrati del soffitto e per qualche istante tutto mi è sembrato estraneo. Poi, quasi di colpo, la chiarezza: sono nel mio palazzo di Mantova, mi sono assopito dopo una notte ancora una volta squassata da ansie, dolori, incubi, abbandoni. Sto male, lo so: ho voluto fare quest’ultimo breve viaggio come duca Guglielmo Gonzaga, gettandomi senza paura nella calura di agosto, per rivedere ciò che mi è caro.
Sono stato alla nostra residenza di Marmirolo per salutare il mio primogenito Vincenzo e la sua sposa: presto mi succederà e i mantovani saranno felici per la sua giovanile baldanza, il suo gusto per l’arte e la bellezza e forse gli perdoneranno la sua vanità. Poi sono andato alla villa di Porto per il secondogenito di Vincenzo, il piccolo Ferdinando, nato ad aprile: la famiglia continua, lui sarà destinato alla carriera ecclesiastica, riesco quasi a immaginarlo nella veste rossa dei cardinali... Infine ieri sera, stremato, sono arrivato nel mio appartamento cittadino e stamane tornerò a Goito, dove l’acqua corrente del Mincio porta un poco di leggerezza all’aria: qui, vicino al lago a alle paludi, già mi sembra di respirare con più affanno. Sarà meglio muoversi presto, prima di restare soffocati dall’afa: dov’è il cameriere? Dove sono i valletti? Devo alzarmi, devo andare: ora chiamo, ecco la piccola campana d’argento che mi regalò tanti anni fa la Serenissima Eleonora...
«Sono scomodi questi cuscini, mi fa male tutto, non va bene, che portantina stretta! Fate piano lungo il corridore, non oscillate così! Aprite la porta, calma, Giovanni, Federico, aprite i vetri del camerino, devo respirare, devo vedere».
La pace, per un attimo, voglio solo quello. Di fronte a me, poco sulla destra, il mio Antegnati sta lì, come sempre da più di venti anni, le canne brillanti, forgiate come meglio non potevo desiderare. E le cube sono già attraversate dalla luce che entra prepotente nella navata e sulle cantorie, anche laggiù, sopra il portale dove possono stare tanti musici.
«Ricordi, Giovanni, prima di costruire la basilica qui si giocava a palla, come mi divertivo con il Barba Iudum! I miei muratori hanno nascosto delle palline a imperitura memoria, come scherzava l’architetto: ho riso come un bambino quando me l’hanno raccontato».
Ho amato questa chiesa, ho amato la musica, ho deciso di proseguire a modo mio il cammino dell’Eccellentissimo zio Ercole Cardinale, strappato alla Chiesa in un momento cruciale, forse a un passo dal soglio pontificio. Ho fatto scrivere testi e melodie per avere una nuova liturgia, ho fatto lavorare e discutere prelati da Milano e da Roma per ottenere la sua approvazione. Ho tentato anche di costituire il Seminario per i chierici qui in S. Barbara: era il mio contributo al Concilio, se era morto il mio Reverendo zio volevo essere presente io, perché è la mia Chiesa, perché sono un principe cristiano, perché so governare e istruire i miei sudditi. Proprio loro possono entrare in questa basilica, pregare agli altari, ottenere indulgenza, partecipare ai riti pieni di musica con l’organo più bello: par sempre che via sia il giubileo scriveva il mio grande Cavazzoni. Quanto ho amato i suoi inni, i suoi ricercari che scorrevano sulla tastiera così severi e insieme così eleganti. E Franceschino, dov’è il mio Franceschino? A lui avevo affidato il mio Antegnati: perché non torna da Graz? L’ho fatto studiare così bene, il caro Rovigo, è diventato così bravo che ora non vogliono più lasciarlo andare da quella corte. E qui ho dovuto sostituirlo con quel Ruggero, Roversi credo si chiami: fa il suo lavoro con onore, ma non ha lo stesso tocco, la stessa passione...
Non riesco, non riesco quasi a cantare, mi esce solo un soffio di fiato: «lo riconosci, Federico?» È l’incipit della Missa In Dominicis diebus: l’ho fatta elaborare in fretta, insieme alle altre del Kyriale, discutendo con Contino, Bruschi, Wert, con Palestrina. Ah, il mio maestro Pierluigi che guardava la mia musica, mi dava consigli... Sono riuscito a farlo comporre per me, secondo lo stile che ho voluto per Santa Barbara, fugato continovamente et sopra soggetto. Roma è venuta a Mantova, non sembra di sentire aleggiare ancora i sapienti intrecci di voci, la profondità, la grazia, il virtuosismo della scrittura? «Scrivilo un giorno Giovanni, la dolcissima e copiosissima
musica di diversi autori è risuonata tra questi muri».
E ora chi è salito in presbiterio, laggiù? È don Gastoldi, ma è solo: allora deve sostituire anche oggi
il mio maestro di cappella Wert, sempre più cagionevole di salute.
«Lasciatemi pure solo qui per un poco: prima di partire voglio assistere all’ora prima, nella mia
tanto cara e diletta chiesa di Santa Barbara. Scrivilo Federico, scrivilo un giorno...»
Il duca Guglielmo morì a Goito il 14 agosto 1587.
Federico Follino e Giovan Battista Vigilio ricordarono nelle loro cronache il passaggio a Mantova.
Quattro palline di cuoio sono state ritrovate in un foro del muro accanto alla sagrestia durante i lavori di restauro e sono risultate tra le più preziose per quell’antico gioco che precedette il tennis.
Licia Mari
«Che brutto inverno stiamo passando: febbri cattive hanno invaso la città. Si è ammalato anche il piccolo figlio del duca Francesco e non è riuscito a superare la malattia. Ma la cosa più grave è che ha contagiato il padre e pochi giorni prima di Natale siamo stati colpiti da un’altra disgrazia. Pensa, fratello, a febbraio ci lasciava il grande Vincenzo e ora in questo triste dicembre, piangiamo il figlio e il suo erede. Vorrei dimenticare questo 1612». «Padre Amante, è una vera tragedia per i signori Gonzaga: ora resta Ferdinando, il cardinale che vive a Roma, nel suo mondo raffinato di cultura e arte. Dovrà rinunciare al suo alto grado religioso e diventerà il nuovo signore di Mantova». Amante Franzoni, con un cenno di saluto al confratello, si allontana pensieroso e percorre un tratto del quieto chiostro: si ferma, si appoggia ad un’antica ben tornita colonna e guarda oltre le antiche mura. È tornato al suo convento di San Barnaba: tra i padri Serviti ci sono sempre dei buoni musicisti che si possono assoldare e la cerimonia di commiato per il duca Francesco deve essere perfetta. Improvvisamente ricorda com’era diverso quel novembre 1598, in cui, giovane novizio già esperto di musica, aveva ascoltato con gioia l’ordine letto dal Priore per il Pastor Fido, la pastorale da allestire in occasione della visita di Margherita d’Austria: Per servitio del Serenissimo signor Duca nostro s’havriano a raccogliere subito subito dopo desinare in Santa Barbara tutti questi Musichi che intervengono nella pastorale, però io priego la Potestà Vostra ad ordinare a quei suoi Padri che sono nei concerti a comparire in tempo. Che meraviglia quello spettacolo! E i brani di Wert, Gastoldi Monteverdi… L’illustre ospite era rimasta entusiasta e lui aveva pensato: anch’io scriverò d’amore sacro e profano... Ed era riuscito a farlo: prima Fioretti Musicali e Madrigali, anche per onorare l’appartenenza alla gloriosa Accademia Olimpica di Vicenza, poi messe e mottetti, per la Cappella del Duomo di Forlì, di cui era diventato maestro. Ma il grande desiderio era tornare a Mantova, e diventare maestro di Cappella nella basilica palatina di S. Barbara: lì era il suo posto. Aveva scritto nel novembre del 1611 al cardinale Bonifacio Caetani, il quale, da Ravenna, aveva mandato il suo memoriale e la lettera di raccomandazione al duca perché lo assumesse: le sue opere e la sua attività sono chiara testimonianza del suo valore. Vincenzo non aveva nessuna intenzione di cambiare maestro in S. Barbara, ma era stato gentile: in futuro avrebbe tenuto in considerazione la proposta ricevuta. Non aveva fatto in tempo: pochi mesi dopo era morto e il mondo era sembrato davvero cambiare. Il segno più evidente era che Monteverdi, proprio il divo Claudio, aveva lasciato la corte; con lui altri erano quasi fuggiti, in modo per nulla pacifico. A luglio anche il “suo” posto era rimasto libero: che fosse giunto il momento? Due mesi ancora di attesa - il solito Taroni si era messo in mezzo - ma ecco, ad ottobre di quel 1612 che voleva dimenticare, la nomina era arrivata. Francesco non si era dimostrato così insensibile e lui era diventato il nuovo maestro in S. Barbara. Aveva tra le sue carte le giuste composizioni per onorare il suo nuovo incarico: una messa, dei mottetti, ma anche delle sinfonie e delle canzoni, perché si vedesse che non era estraneo al nuovo stile concertato con strumenti. E quale miglior momento per presentarle se non le feste solenni di dicembre? Come aveva pensato diverso quel finire dell’anno: poteva contare su un ottimo organista, Ottavio Bargnani, e l’Antegnati era stato trattato con grande cura, l’aveva revisionato anche l’abilissimo Bernardino Virchi della prestigiosa scuola organaria bresciana; forse non c’erano molti buoni cantanti come prima in corte, ma il minor virtuosismo non avrebbe intaccato l’espressività del testo. Poi avrebbe dato tutto alle stampe, per onorare la casata Gonzaga e fissare nella memoria la sua opera. Ma ora è signore il cardinale: un uomo colto ed esigente. Frate Amante ferma un attimo il suo pensiero, ha quasi paura a passare così rapidamente da un padrone all’altro, e ad ammettere qual è il suo tesoro più prezioso: la sua musica, che non vada dispersa e dimenticata. A Ferdinando, al nuovo duca, dedicherà la sua opera, finito il lutto, nel prossimo anno. La stamperà a Venezia Ricciardo Amadino, si intitolerà Apparato Musicale e sul frontespizio porterà l’indicazione dei suoi titoli: Opera Quinta d’Amante Franzoni Servita Accademico Olimpico Maestro di Capella nella Chiesa Ducale di Santa Barbara in Mantova. Inserirà anche lui, come Monteverdi nel suo Vespro della Beata Vergine, un mottetto sul testo di Duo Seraphim e una Sonata sopra Santa Maria: che brivido, non saranno all’altezza di quelle pagine sublimi, ma la Cappella li eseguirà senza problemi, torneranno nuovi ottimi musicisti, tornerà anche Adriana Basile, non può lasciare il suo amato cardinale, che l’ha lodata come la prima donna ch’oggi canti… Frate Amante cerca tra le carte che ha in mano un foglio bianco e poi nella tasca un carboncino, scrive frettolosamente alcune parole, poi cancella, poi riscrive, finalmente la frase scorre fluida, in accordo con il suo pensiero: Non così tosto hebbi per gratia, e favor singolare d’essere nella Chiesa Ducale di questa città ammesso al servigio di questa Serenissima Casa, che nel medesimo tempo sopragiunto il giorno solenne, e festivo della Gloriosa Vergine Santa Barbara di questo Tempio sempre augusto singolar Protettrice; subito dal debito mio così consigliato con tutto il pensiero mi diedi a celebrarlo, per quanto richiedea l’ufficio incaricatomi con quella sorte di Musiche che, ed’ al gusto de’ Padroni, ed’ alla grandezza d’un tanto giorno, giudicai più convenevole… Riposate in pace, duca Francesco, anche per voi canteremo Sancta Maria, ora pro nobis. Licia Mari
Licia Mari
Sono arrivato presto, stamane, in Santa Maria: ho percorso le strade di Trastevere che appena albeggiava e, giunto davanti alla chiesa, l’ho guardata come se fosse l’ultima volta. Sono entrato e ho alzato gli occhi sul mosaico dell’abside: la Vergine e Cristo in trono iniziavano ad illuminarsi di una pallida luce e ho pensato a quante volte ho visto splendere quei piccoli frammenti d’oro. Sono salito all’organo ed ecco, ora sono qui: di fronte alla bellezza solenne della facciata, mi viene in mente il potente Cardinale Altemps che ne ha commissionato, più di quaranta anni fa, la costruzione. Metto le mani sui tasti, ma mi fermo: vivo ancora in un tempo sospeso, ieri ho saputo che è morto mio padre. E io, in questa strana giornata di marzo del 1610, sono seduto davanti a questo strumento, non a Mantova dove il grande Paolo Virchi, compositore, titolare dell’organo della basilica palatina di S. Barbara, viene compianto. Anch’io però sono stimato, qui a Roma dove sono giunto l’anno scorso, ospite di mons. Aurelio Recordati, che mi ha molto favorito, e ha scritto più volte per informare il duca Vincenzo delle mie qualità. I pagamenti da Mantova non sono cessati quando sono partito, perché sono venuto qui a studiare, a conoscere importanti artisti, grazie al cardinale Ferdinando Gonzaga. Non sono certo inesperto, vengo da un’importante famiglia bresciana di organari, di liutai, di musicisti: il cugino di mio padre, Bernardino, dal 1599 cura la manutenzione dell’organo Antegnati della basilica di S. Barbara. Quanto amo quello strumento: mi porto dentro il suo suono, che sa di casa, di famiglia, di tradizioni antiche e insieme di nuove ricerche: il suo costruttore Graziadio veniva dalla mia stessa città e ora suo figlio Costanzo è altrettanto famoso. Ho imparato molto in quella chiesa, da mio padre, dagli strumentisti e dai cantanti di corte, da quei riti in cui la musica respirava con la parola, i gesti, l’incenso, gli arredi, i paramenti, e con il silenzio di tanti attimi che si schiudeva sull’infinito. È solo di due anni fa il matrimonio tra il principe Francesco e Margherita di Savoia: quale fasto in quel maggio 1608, con cerimonie, spettacoli, fuochi. Certo, il signore della musica era Claudio Monteverdi, ma anche mio padre Paolo aveva suonato più volte e composto per gli intermedi dell’Idropica del Guarini. Poi però si era indurito, forse per la vecchiaia, e se la prendeva con me: nell’estate scorsa aveva risposto a mons. Recordati, che aveva acquistato un arpicordo perché potessi studiare e voleva essere rimborsato dei 12 scudi spesi, che lui no, non poteva soddisfare i capricci di Fulvio, non aveva soldi per un figlio così avventato. Monsignore si era infuriato e aveva scritto al segretario Magni: dica con viva maniera, a messer Paolo Virchi, che il suo figliolo ha bisogno di denari et, quando non gli ne mandarà, io li farò vendere l’instrumento et sonerà poi sopra la tavola, assicurando vostra signoria che è così galante giovane et mortificato che è un’edificatione, né merita che suo padre, che ha il modo di spendere, lo tenga così stretto, massime non gettando via li denari. Non mi ero mai sentito così imbarazzato: ero compiaciuto della stima nei miei confronti, ma come poteva mio padre trattarmi così? Poi la cosa sembrava risolta, ma sono stato malato, intendevo vendere lo strumento e di nuovo il “maestro Virchi” si era opposto: cosa voleva da me? Ora è morto, e non ci siamo neppure chiariti: anzi, temo che abbia parlato male di me a corte, e che io ora non possa sperare di tornare, magari prendendo il suo posto. Ho saputo che negli ultimi tempi si è messo in luce un mantovano, tale Giacomo Bonzanini, e poi c’è il grande Ottavio Bargnani, bresciano anche lui… Ho parlato a mons. Recordati, che ha riportato le mie preoccupazioni al cardinale Gonzaga: entrambi manderanno una lettera a corte per sostenermi. Monsignore mi ha detto che il cardinal Ferdinando è molto abile: prima scriverà al fratello duca che gli è dispiaciuta molto la notizia della morte dell’organista di S. Barbara, per le sue qualità e per l’ottimo servizio prestato, poi mi raccomanderà a lui, sia per le mie doti di strumentista e di compositore, sia perché, aiutandomi, i cortigiani potranno vedere come, facendo un buon lavoro, anche i figli siano considerati. Da parte sua Recordati punterà invece sul sentimento e la convenienza: scriverà – così mi ha detto – che torna a Mantova il disperatissimo figliolo di messer Paolo Virchi, che è stato ospite a casa sua per undici mesi dimostrandosi eccellente nel comportamento e nel far musica; sottolineerà che, tenendomi al suo servizio, il duca non avrà impiegato male i denari che ha speso per mantenermi a Roma. Sono convinto che riuscirò, e smentirò mio padre. Forse… ho quasi paura, anche se sono un uomo fatto ormai, ma lui era Paolo Virchi… Suona la campanella, sta per iniziare la messa, devo suonare: ora non esiste altro, fra una settimana farò i bagagli, tornerò al mio amato Antegnati. Forse. Licia Mari
Licia Mari